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Convento S. Maria del Cengio

Il Cengio

Talitha Kum

Casa dei Sentieri

Eremo S. Maria

Servi di Maria

ARTE

La chiesa è un ponte di luce tra cielo e terra.

Le pietre ben ordinate e scolpite sono riunite per formare il cristallo di un universo ordinato, dove l’uomo e il creato si integrano al Creatore.

Dio è il primo architetto: –Egli vide che tutto era bello, buono, utile. (cfr. Gen 1,25).

La chiesa ha un preciso orientamento: è volta verso l’aurora, verso il sorgere della luce che la liturgia di lode saluta ogni giorno, nei brividi dell’alba: «Lux intrat, albescit polus: Christus venit, (Entra la luce, s’illumina il cielo: Cristo viene).

L’abside è come una coppa bianca di silenzio: è ricordo del volto morto di Cristo e della preghiera di ogni credente che sale purificata dalle lacrime.

La navata centrale è simbolo della croce, del Figlio dell’uomo crocifisso sul Golgota, una croce silenziosa che con i suoi bracci distesi esprime un amore grande come il mondo non aveva mai conosciuto. infine le volte della chiesa, terse e chiare, rievocano il cammino della vita e il canto di risurrezione e il cerchio dei tempo: linea perfetta, infinita, simbolo dell’eternità e di quel cielo di cui ognuno ha nostalgia. La chiesa è il luogo della preghiera comune e privata, è abbellita da atti di devozione individuali e collettivi.

L’affetto e la fiducia si sono concretizzati in segni visibili come un libro aperto; la liturgia canta Maria e i Santi soprattutto per la festa, che diviene il tempo per ornarsi, spogliarsi delle vesti consuete per indossare quelle della devozione cordiale. Nella chiesa di S. Maria questo desiderio era sintetizzato dalla scritta, forse settecentesca, contenuta in un medaglione ovoidale sopra l’altare centrale, oggi ricoperta:

D.O.M. SIC AFFECTUS CORDIS DEMONSTRATUR IN MATREM CUI SEMPER DEBETUR (A Dio Ottimo Massimo: così sempre si manifesta il doveroso affetto del cuore, nei confronti della Madre).

Il chiostro: il giardino fiorito

Camminando nel quadrato del chiostro, attira l’attenzione la particolarità dell’elemento ‘fiorito’, leggibile nei fregi affrescati nella parte superiore dell’alzato dei portici. Ogni chiostro, poiché era immagine del giardino simbolico, comunemente trovava concretezza anche nella disposizione di una parte coltivata a fiori o a erbe aromatiche e curative. Ma la nuda roccia su cui poggia l’intero complesso isolano non permise di disporre a terra una varietà di essenze vegetali: allora si ricorse alla finzione pittorica. Ogni lato reca dipinto un ornamento floreale proprio, espresso in tralci e festoni fioriti o in singole corolle dischiuse oppure in cespi sbocciati.

Tra le decorazioni floreali si alternano numerosi simboli cristologici e alcuni mariani. Il portale tardo gotico è contornato da un più evidente tralcio di rose rosse senza spine, simbolo della passione di Cristo e del suo sangue versato per la redenzione dell’umanità. Ancora una volta i frati Canonici di San Salvatore vollero ricordare simbolicamente il titolare del loro ordine di appartenenza e l’azione salvifica divina nel farsi uomo. Il chiostro, rigoglioso spazio protetto che emerge dal deserto tutt’attorno, luogo intimo e custodito, giardino simbolico dell’anima contemplativa, s’inebria nel colore e nel profumo dei fiori. Nel giardino sono sbocciati tutti i fiori. Ognuno e tutti insieme rallegrano la vista e l’odorato.

Le inflorescenze che vi hanno trovato vita non subiscono alterazioni a causa dell’alternarsi delle stagioni o dello scorrere del tempo cronologico. Non appassiscono, non perdono il colore, mantengono vigoria, vividezza e fragranza. Questo è il luogo dell’eterna primavera. Il chiostro, giardino fiorito, rappresenta l’immagine mistica del giardino interiore.

È uno spazio puramente ideale, legato alla figura umana del peccatore.

La sua anima, costretta nel recinto dei propri limiti corporali, è minacciata dalle ortiche e dai rovi del peccato. È necessario quindi dedicarle particolari cure, liberarla dalle erbacce, permettere alle migliori essenze di fiorire. Purificata con la grazia divina che scaturisce dalla fontana e fortificata dalla missione salvifica di Cristo Salvatore, all’anima si schiude la porta del paradiso cui è destinata. Sciolto dai limiti dello spazio e del tempo, il chiostro isolano raffigura l’aspirazione interiore all’eternità: metafora del Paradiso, quello terrestre delle origini e quello celeste dell’approdo finale, ma anche quello quotidiano se vissuto nell’aderenza al messaggio di Cristo.

La statua della madonna

Collocata sopra l’altare maggiore, nella parete di fondo dell’abside, la statua della “Madonna con Bambino” costituisce l’opera più preziosa della chiesa e richiama, iconograficamente, l’antica devozione mariana del luogo e il titolo del santuario. Da un blocco unico di pietra calcarea, intorno al 1490, lo scultore Girolamo da Vicenza, cui viene attribuita, ha ricavato un’opera originale e inconsueta per i modelli veneti del Quattrocento, che in quel tempo raffiguravano prevalentemente Madonne in trono. L’autore (pressoché sconosciuto alla letteratura artistica se non per una simile statua della Madonna, a Fratta di Carrè, firmata Opus Hieronimi Vice) si rifà presumibilmente a modelli pittorici montagneschi per l’impronta plastica, le forme squadrate e la decorazione minuziosa delle superfici. Tuttavia è anche evidente l’influsso della nuova concezione statuaria mariana di area tedesca e boema, fatta di silhouette ondeggianti, cadenze armoniose dei panneggi, espressioni e gesti dolci, tipici delle “Belle Madonne. nordiche”:

“Madonna con bambino”. Girolamo da Vicenza 1490?

La scultura ritrae a grandezza naturale la Vergine, giovane madre, in atteggiamento assorto e ieratico, che sostiene il figlio adagiato sul suo braccio destro. La trascrizione fedele dei tratti dei viso ci comunica una bellezza ideale e reale allo stesso tempo: l’ovale perfetto, di una grazia quasi immateriale, è reso più umano dall’inclinazione della testa e dall’asimmetria del velo da cui spunta una ciocca di capelli. L’ottima fattura si nota soprattutto nei dettagli descrittivi, modellati con attenzione fin nei particolari, come il panneggio ampio e avvolgente. e la mano elegante che lo trattiene. Riportata al primitivo splendore dal restauro del 1993, l’opera mostra una vasta gamma di colori di forte intensità cromatica: da quelli delicati degli incarnati, a quelli preziosi del manto blu tempestato di motivi dorati, alla veste rossa impreziosita da fiori quadripetali.

L'altare maggiore

L’altare maggiore della chiesa, ora al centro del presbiterio ma un tempo addossato alla parete di fondo dell’abside, è costruito in marmo bianco locale e rappresenta un ottimo esempio di manufatto barocco veneto. Questo è articolato su due colonne corinzie che sorreggono motivi ornamentali e simbolici, fra cui molti angeli che guardano verso la nicchia della Madonna. E’ attribuito alla mano dello scultore bassanese allievo di Giusto Le Court, Orazio Marinali, che si era formato alla scuola del padre Francesco come intarsiatore del legno e con la sua copiosa produzione aveva già dato prova di grande perizia tecnica e compositiva.

Particolare del paliotto dell’altare maggiore, opera della bottega di Orazio Marinali. Nel paliotto domina la scena della presentazione di Gesù al Tempio, un bassorilievo sapientemente cesellato, un tempo denominato “S. Maria Ceriola de Cingulo”, cioè la Madonna della Candelora, che si celebra il due febbraio, giorno in cui la Chiesa ricorda appunto l’episodio di Maria che, in obbedienza alla legge mosaica, si reca al Tempio quaranta giorni dopo la nascita di Gesù per compiere il rito della purificazione (Lc 2,21-40). In questo bassorilievo il Marinali ha saputo coniugare un’ottima capacità narrativa con un altrettanto felice versatilità descrittiva, dando vita a un racconto di grande pregio. In un ovale, su uno sfondo scenografico di architetture rinascimentali, si vede una scena movimentata, animata da dodici personaggi. La descrizione dell’evento è ricca di dettagli e particolari, disegnati con precisione sorprendente in un piccolo spazio, come le scene quotidiane sulla destra, cesellate con oggettività e concretezza. Nel mezzo sta il Bambino, di proporzioni eccessive, quasi a indicare la centralità della sua persona rispetto al coro degli astanti, armonicamente tesi verso il fulcro divino. Tutti i personaggi sono tratteggiati con sapiente realismo: i volti, le vesti, gli sguardi sono ben caratterizzati e riescono quindi a comunicare il senso della individuale partecipazione a un avvenimento corale.

Sulle pareti dell’abside, in due nicchie, sono poste le statue a grandezza naturale, scolpite in pietra grigia tenera, dei santi Gioachino e Anna, genitori di Maria. A destra Gioachino mostra un volto segnato e fortemente espressivo, a sinistra Anna, con un libro in mano, è in atteggiamento severo ma tranquillo. Le statue hanno gesti autonomi, i corpi conservano una posa rigida e plastica, mentre i visi risultano molto particolari, scavati nell’espressione e nei dettagli descrittivi. Entrambe le sculture, databili tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, sono attribuite dalla tradizione storica e artistica a Orazio Marinali, attivo nella bottega bassanese assieme ai fratelli, ma più di loro abile nella tecnica statuaria, nonché in quella del bassorilievo. Anche se la mano dei Marinali non è concordemente data per certa, indiscussi sono il gusto veneto per le movimentate cadenze ritmiche e il vivace pittoricismo, evidenti, per esempio, nei volti, testimonianza di notevole padronanza tecnico-artistica.

Gli affreschi

Sopra è appeso un affresco staccato, residuo di un ciclo trecentesco che ornava il chiostro superiore, rinvenuto nel 1920 durante lavori di restauro.

L’affresco venne ‘scoperto’ nel 1919, durante un ciclo di lavori di ristrutturazione degli edifici. Fu rinvenuto, sotto uno strato di intonaco, all’altezza del pavimento del corridoio superiore del convento, tra il chiostro e la chiesa.

In origine, prima della costruzione del convento, quella porzione di muro costituiva la parete esterna meridionale della chiesa. L’affresco, quindi, era stato dipinto all’esterno dell’edificio sacro, alla sommità della scalinata incisa nella roccia che dal torrente conduceva sulla cengia. Era l’immagine che accoglieva il devoto che saliva lassù, prima di entrare nella chiesa dedicata alla Vergine Maria.

Nel 1455-1456, durante i lavori di radicale ristrutturazione della chiesa, alla navata fu aggiunta una piccola cappella. Per innestare la nuova struttura allo spazio maggiore fu scassato il muro meridionale. Proprio in quel punto fu intaccato l’antico affresco, distruggendone tutta la parte inferiore e il margine destro. Del dipinto rimase solo l’inquadratura in alto, riducendo i personaggi a mezzobusto.

Per salvaguardare quanto rimaneva del brano pittorico, l’affresco fu ‘staccato’ e riportato su nuovo supporto. Così oggi noi lo vediamo, appeso in chiesa alla parete tra le due cappelle laterali a destra. Per caratteristiche stilistiche e tecniche l’affresco viene datato all’incirca al 1330 e annoverato tra i prodotti del ‘giottismo’ vicentino.

L’intera composizione, composta e rigida, è ancora caratterizzata da un arcaico mo-dello d’influenza bizantina, in cui i personaggi non sono attori di una narrazione ma elementi simbolici. Solo il drappo di fondo, color prugna su fondo verde, crea una con-tenuta spazialità in cui sono disposti i quattro personaggi. Maria, in posa rigida e fron-tale, con lo sguardo fisso in avanti, presenta il Figlio. Il Bambino non si rivolge allo spettatore ma si torce verso il personaggio di destra. La prima intenzione del pittore lo voleva intento a ricevere il ramo fiorito ma un pentimento in corso d’opera trasformò il gesto in benedizione. A sinistra, san Giovanni reca il rotolo dell’evangelo e indica il futuro Cristo, riferimento della propria testimonianza scritta. A destra, santo Stefano offre il fiore della propria vita, sbocciato nel testimoniare la fede nell’adesione al mes-saggio di Cristo.

I dipinti

Sul lato sinistro della navata si possono ammirare due altari che, dal punto di vista architettonico, sono molto simili e risultano essere buoni esempi di arte barocca. La fattura è piuttosto fine, in marmo policromo, con colonne di colore rosso e intarsi nella cornice e nella base. Il primo altare a sinistra è dedicato all’Angelo Custode e fu costruito, come indica la data sul timpano, nel 1694. La tela che qui trova collocazione è datata 1728 e firmata da Cristoforo Menarola come si legge in basso: CHRISTOFORO MENAROLLA / PITOR 1728.

L’autore, che era solito autografare tutte le sue opere, lo faceva usando diciture diverse del suo nome, che tuttavia hanno permesso una ricostruzione abbastanza precisa della sua produzione.

La tela isolana rappresenta in alto la Vergine col figlio e S. Antonio da Padova, in basso un Angelo Custode con un bambino per mano e S. Rocco. Lo sfondo è cupo, il panorama poco curato, mentre le figure sono solide nei contorni e delineate con chiarezza in una composizione sicura.

Ne risulta un insieme semplice ed elementare, che si rifà a un’iconografia oleografica e devozionale: ad esempio S. Rocco è presentato come pellegrino e mostra le piaghe, allusione evidente alla sua funzione apotropaica, cioè di difesa dalle malattie epidemiche, ed è accompagnato dal suo cane che, come vuole la tradizione, gli porta ogni giorno un pane in bocca anziché mangiarselo. Le figure sono rese con robustezza anatomica e solidità nei contorni e nell’insieme danno vita a un certo dinamismo compositivo, suggerito da gesti, movenze e sguardi. Dove l’arte di Menarola scade decisamente è nell’uso del colore, che risulta opaco, privo di luminosità, cupo e greve. Manca un qualsiasi espediente tecnico che, dall’esterno o dall’interno, catturi la luce, dia vita ai bianchi opachi o faccia brillare i pochi colori chiari. Il secondo altare a sinistra (1682) contiene una pala raffigurante S. Carlo Borromeo e S. Gaetano Thiene, eseguita nel 1684 dal vicentino Pietro Bartolomeo Cittadella (firma BART. CITTADELLA 1684), pittore attivo in Veneto nella seconda metà del Seicento, scolaro e collaboratore di Carpioni, ma non estraneo a sollecitazioni del naturalismo risentito della corrente “tenebrosa”.

Sia l’altare che il paliotto furono commissionati – come si legge sul blasone – dai coniugi Cerchiari-Bissari, in segno di devozione verso i santi protettori, S. Gaetano a destra e S. Carlo a sinistra, che sono accostati per volere dei committenti, non avendo in realtà vicende in comune.

Anche la loro rappresentazione è piuttosto diversa: il primo è colto in atteggiamento di preghiera, con volto sereno e radioso, il secondo in vesti cardinalizie e con espressione estatica. A terra si scorgono alcuni simboli, il giglio e il libro; in alto spicca un arazzo con l’effigie di Cristo, sostenuto da alcuni putti. La struttura compositiva appare sobria, definita da un disegno netto e preciso, ma privo di originalità; le figure sono foggiate in modo grossolano, e appesantite da particolari sproporzionati e sgraziati; i colori forti hanno un peculiare timbro tendente al bruno e al rossastro.

La madonna del Rosario

Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento anche a Isola è documentata la presenza della Confraternita del Rosario. La sua azione aderiva alla generalizzata diffusione di questa particolare devozione e delle relative associazioni. Dalla chiesa di Santa Corona di Vicenza la propagazione delle Confraternite del Rosario nel territorio vicentino avvenne negli ultimi due decenni del XVI secolo, con il compito di illuminare i buoni cristiani con prediche, quaresimali e l’esaltazione delle feste solenni. A Isola la nuova Compagnia non fu eretta nella chiesa parrocchiale, ma trovò riferimento presso l’altare della cappella laterale nella chiesa di Santa Maria del Cengio. Presso quell’altare i confratelli svolgevano le loro pratiche religiose e le loro riunioni. Non si conoscono i particolari dell’iniziativa e il motivo dell’anomalo spazio di riferimento. Tuttavia proprio l’inconsueta collocazione nella secondaria chiesa sulla cengia, e non nella chiesa principale del paese, fa ipotizzare una scelta opzionale dei frati che, come responsabili della religiosità isolana, vollero intervenire nell’iniziativa. Ripeterono così l’azione del 1492 quando promossero la nascita della Confraternita di San Pietro apostolo, che per le particolari devozioni praticate era chiamata dei Battuti o Flagellanti. Quel sodalizio si trasformò poi, dopo il Concilio di Trento, nella Confraternita del Corpo di Cristo e in quella del Santissimo Sacramento. Nell’ultimo periodo del Cinquecento, l’Associazione del Rosario era già organizzata e funzionante, tanto che i confratelli s’impegnarono con proprie offerte nell’abbellimento decorativo dello specifico spazio di culto a loro assegnato e nella predisposizione di un nuovo adeguato altare.

In quegli anni l’azione della Confraternita non si limitò alla sistemazione della cappella, ma commissionò alla bottega dei Maganza una pala raffigurante la Madonna del Rosario da sistemare sull’altare. Il confronto stilistico con altre opere della bottega orienta l’attribuzione verso Marcantonio Maganza, figlio del capostipite Alessandro.

Gli stessi riferimenti comparativi fanno ipotizzare una datazione attorno all’anno 1607.

Al centro del dipinto, inquadrata da una vistosa tenda rossa, è ritratta la Vergine che, in posizione seduta, tiene in braccio il Bambino. Questi con la mano destra regge e fa dondolare la corona del Rosario, mentre con l’altra è nell’atto di donare un fiore a santa Caterina da Siena.

A sua volta la Vergine consegna il Rosario a san Domenico. Nel basso della tela, da una parte è rappresentato un gruppo di uomini, dall’altra invece un gruppo di donne.

I componenti delle due classi, atteggiati in vario modo, venerano la Madonna del Rosario. Il dipinto offrì agli associati un sicuro riferimento visivo del loro sodalizio.

Gli uomini e le donne appartenenti alla Compagnia, distogliendo l’attenzione verso la Madonna del Cengio nella nicchia dell’altare maggiore qualche metro più in là, potevano identificarsi nelle persone devote raffigurate sulla tela e indirizzare con precisione la loro religiosità verso la Regina con il rosario in mano.

Gli altri elementi artistici

Sul lato destro della navata, in faccia alla porta laterale, in una conca con volta a crociera, s’innalza il recente altare dell’Addolorata, che ha sostituito un preesistente pulpito ligneo.

L’altare si trova addossato alla parete, con la mensa sostenuta da due esili colonnine, che lasciano intravvedere la decorazione a greca dorata; il tabernacolo e l’alzatina sono in marmo bianco.

L’insieme è sobrio e pulito nelle forme, gradevolmente proporzionato e semplice.

Nella nicchia la statua della Vergine Addolorata, particolarmente cara ai Servi di Maria che, tra le pratiche devozionali, danno risalto alla Corona dell’ Addolorata (o dei Sette dolori) e ne celebrano la festa il 15 settembre.

Non a caso anche il mosaico lungo la scalinata dalla Giara alla chiesa rappresenta un’artistica “Via Matris”.

Tra le opere recenti ricordiamo inoltre il dipinto che si trova sulla parete destra della navata, dopo l’altare dell’Addolorata, inserito in una monofora quattrocentesca.

Rappresenta la figura di S. Pellegrino Laziosi (1265-1345), taumaturgo e protettore dei malati di cancro, ed è opera recente del pittore vicentino Piero Dani.

L’unico e principale accesso alla chiesa era un tempo quello da settentrione, dato che la primitiva costruzione era orientata diversamente rispetto all’attuale.

Il portale

La chiesa sulla cengia è una chiesa senza facciata. La necessità di aggiungere spazi suppletivi al corpo dell’edificio religioso quattrocentesco impose di occupare via via anche i residui ritagli di spazio sulla sommità dello sperone roccioso, finché anche il frontale fu oscurato e la struttura d’accesso fu ricollocata in posizione secondaria. Per accedere e dare significato alla porta maggiore fu inventata la parte finale delle scalette e il terrazzo pensile. Lì fu ricollocato il portale, di chiara impronta quattrocentesca.

Due pilastrini in pietra tenera, poggianti su base quadrata, fungono da stipiti.

In alto portano due capitelli a caulicoli che nello svaso mostrano un intaglio figurato. Aiutati da due mensole, sostengono l’architrave. Stipiti e architrave sono sagomati con una riquadratura geometrica e recano al centro un tondo. Negli stipiti il tondo è decorato con un motivo floreale, nell’architrave da un simbolo. Le parti figurate espongono l’indirizzo devozionale svolto nella chiesa sulla cengia. Nei due capitelli si affrontano le figure di san Giovanni Battista (a destra), con la mano protesa che indica, e Cristo risorto (a sinistra), con il vessillo della croce come simbolo di vittoria sulla morte.

Insieme richiamano l’episodio narrato da ognuno dei quattro evangelisti quando il precursore profetizza la venuta di Cristo e in particolare le parole di Giovanni alla vista di Gesù: «Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo!». Sull’architrave attira l’attenzione la scritta AVE MARIA GRATIA PLENA, inframmezzata da un medaglione scolpito con significato più elaborato. La mano destra di Dio si manifesta misericordiosa trasformandosi in croce.

Sembra quasi che la mano benedicente sia stesa sulla croce. Il simbolo è racchiuso in un cerchio, trasformando la figurazione in un nimbo crucifero.

L’interpretazione va ricercata nella lettura complessiva del messaggio: la benevolenza di Dio Padre si manifesta nella figura del Figlio, Cristo Redentore.

Il saluto dell’angelo a Maria si pone come il momento iniziale del progetto divino di redenzione.

L’intero proposito iconologico vuole orientare alla figura di Cristo Salvatore, incarnato morto e risorto per la salvezza del mondo. I frati canonici di San Salvatore, arrivando a Isola, portarono la loro devozione cristologica, derivata dall’essenza del loro ordine monastico, ma trovarono una chiesa da tempo immemorabile intitolata a Maria. Non cancellarono il precedente, non fecero prevalere una devozione sull’altra, ma fusero i culti, cristologico e mariano, escogitando modalità per esprimerli contemporaneamente entrambi. La chiesa e il chiostro sono disseminati di simboli che evidenziano la volontà di quei frati di trovare un giusto equilibrio devozionale.

STORIA

S. Maria

Santa Maria del Cengio Cronologia storica essenziale della presenza della chiesa e del convento

Da mille anni una chiesa dedicata alla Vergine Maria pervade di significato sacro la cengia di Isola. Elevata tra terra e cielo propaga un’aura religiosa di spiritualità mariana sul paese e sul territorio circostante.

Periodo medievale

Le origini del complesso di Santa Maria non sono documentate. La chiesa è attestata per la prima volta nel 1192. Nei primi quattro secoli del secondo millennio l’edificio religioso proponeva un culto significativo, ma il rito era episodico. Non legata alla sacramentalità parrocchiale o a una devozione esclusiva, la chiesa aveva un ruolo marginale. Nella prima metà del Quattrocento la chiesa mostrava un evidente decadimento, sia strutturale sia religioso. Il periodo più antico è documentato dalle due finestrelle strombate nel muro originario della navata. Sono ancora visibili gli antichi scalini, incisi nella roccia, d’arrivo alla chiesa medievale. Al quarto decennio del Trecento è databile l’affresco staccato, ora conservato all’interno della chiesa.

La costruzione del convento

Le origini del convento sono legate al fervore mariano e al clima di spiritualità che si diffusero nel territorio vicentino prima della metà del Quattrocento. Nel 1455, per volontà testamentaria di Benedetto Zeno, su iniziativa di Lucrezia Zeno e con il contributo di suo marito Giovanni Porto, la chiesa fu ristrutturata e accanto fu costruito un convento. La nuova costruzione permise la presenza stabile di una comunità monastica. Furono chiamati i frati dell’ordine di santa Brigida di Firenze. Il 25 giugno 1456 fra Battista di Normandia diede inizio a un’autonoma comunità conventuale. La vicenda isolana dei brigidini fu di breve durata. Il 14 gennaio 1462 rinunciarono alla nomina e abbandonarono il convento. La memoria dei monaci di santa Brigida è documentato dalla costruzione della prima cappella a sinistra della chiesa e da lacerti di affresco conservati nella stessa. Risalgono a quel periodo anche il portale a sesto acuto e la coppia di finestre trilobate quali elementi originari della struttura del chiostro.

I canonici di San Salvatore

Dopo la partenza dei frati di santa Brigida, la famiglia Porto chiamò sulla cengia i frati dell’ordine dei Canonici di San Salvatore di Venezia. Il 18 marzo 1462 la nuova comunità, alla guida di fra Cristoforo da Milano, iniziò a ufficiare la chiesa e abitare il convento. I Canonici abitarono il convento e ufficiarono la chiesa per più di trecento anni. Nel lungo periodo della loro presenza sulla cengia isolana i Canonici diedero forma completa alla chiesa e al convento e rinnovarono l’immagine sull’altare maggiore assommando il culto cristologico a quello mariano. Nel corso del Seicento il culto mariano riprese il sopravvento. La rinnovata devozione influenzò la decorazione della ristrutturata chiesa e del nuovo presbiterio avvenuta tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento. L’azione iniziale dei Canonici di San Salvatore è documentata dall’impianto della chiesa e del convento, dal campanile, dal portale d’accesso. È datata nell’ultimo scorcio del Quattrocento la statua della Madonna col Bambino in braccio. Del periodo iniziale del Seicento è la tela della Madonna del Rosario. Nella seconda metà del Seicento la chiesa fu ristrutturata, con la regolarizzazione della navata laterale e con la costruzione del presbiterio. Nell’ultimo quarto del Seicento sono stati costruiti i due altari della navata laterale con le rispettive pale. Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento è databile la decorazione plastica del nuovo presbiterio.

Il miracolo delle lacrime

Nel 1513 il complesso di Santa Maria fu coinvolto in uno degli episodi collaterali della Battaglia della Motta. In quell’occasione il convento e la chiesa furono saccheggiati e incendiati da un gruppo di armigeri della coalizione imperiale e spagnola. L’episodio della rappresaglia può essere documentato dalla ricostruzione del chiostro secondo un impianto strutturale rinascimentale, con il riutilizzo del materiale tardo gotico già in essere. La tradizione storica connette a quell’episodio l’evento tramandato come il ‘Miracolo delle lacrime’: la statua della Madonna fu vista piangere e chiudere gli occhi mostrando compassione per gli abitanti di Isola. Il fatto è documentato da un’iscrizione, composta a metà del Seicento, murata a fianco del portale.

Il convento senza frati

Il 12 settembre 1771, per iniziativa del Senato della Repubblica di Venezia, la comunità monastica di Isola fu soppressa. I Canonici di San Salvatore abbandonarono il convento. Per tutto l’Ottocento il monastero restò disabitato. Solo la chiesa mantenne la sua funzione religiosa essendo ufficiata saltuariamente da un prete. Per tutto l’Ottocento il complesso di Santa Maria subì un progressivo degrado per la mancanza di manutenzione e per l’utilizzo improprio degli edifici.

I Servi di Maria

Nel 1894 il conte Antonio Porto espresse l’intenzione di cedere ai Servi di Maria di Monte Berico l’intero complesso di Santa Maria di Isola. Il 14 dicembre 1904 il Consiglio Generalizio dei Servi determinò la fondazione di una comunità conventuale sulla cengia. Il 27 aprile del 1905 la nuova comunità, guidata da fra Giovanni M. Bianchini, iniziò ad abitare il convento e ufficiare la chiesa. Nel 1912 la comunità conventuale di Isola divenne autonoma, nominando primo priore fra Filippo Maria Grendene. I Servi di Maria ridiedero identità alla chiesa incrementando la devozione mariana. Nel settembre 1931 il convento e la chiesa subirono i danni di un devastante incendio. La parte superiore del convento fu completamente distrutta. L’edificio fu prontamente ricostruito, con la modifica delle linee architettoniche originarie. La ricostruzione dopo l’incendio è visibile soprattutto nella parte superiore del convento e nella struttura merlata che ospita il coro. Fin dal loro arrivo a Isola i Servi caratterizzarono il convento come luogo per la formazione dei giovani e l’accoglienza vocazionale. Già nel 1905 iniziò l’attività scolastica per un gruppo di giovani del paese. In seguito venne avviato un collegio per ragazzi aspiranti alla vita religiosa e sacerdotale tra i Servi di Maria. Per ospitare il percorso formativo delle numerose vocazioni, il convento subì delle sostanziali ristrutturazioni nel corso degli anni. Nel 1914, riconvertendo degli annessi rurali, fu aggiunta una nuova ala adiacente alla parte più antica del convento. Nel 1928 vi fu trasferita la sede veneta del Noviziato che vi restò ininterrottamente fino al 1963, poi a periodi alterni a seconda delle necessità. Nel 1944 la nuova struttura fu allungata e innalzata. Negli ultimi decenni il convento è sede di una piccola, ma dinamica realtà comunitaria. Nella chiesa, per dare visibilità al culto dell’Addolorata, nel 1928 fu predisposto un altare alla nuova devozione. Nel 1938 fu disposta un’artistica ‘Via Matris’ lungo il percorso delle scalette d’accesso. La presenza dei Servi negli ultimi cento anni, in connessione alle varie fasi della loro vita conventuale, ha determinato conservazioni, modifiche, migliorie, restauri fino all’attuale configurazione sia della chiesa che del convento, non intaccandone comunque l’impronta originaria.

testi di Albano Berlaffa

RELIGIOSI LEGATI A S.MARIA

Gioacchino Stevan

(Nove, 18 novembre 1921 – Isola Vicentina, 28 aprile 1949) Nato in una modesta famiglia, dopo la scuola elementare aiutò il padre e i fratelli nel lavoro di panettiere contemporaneamente partecipava attivamente all’Azione Cattolica.

Nel 1941 viene chiamato alle armi come alpino destinazione Albania, trasferito in Montenegro e infine in Francia, lodato e ammirato dai compagni d’armi per la sua bontà e generosità. Alla fine della guerra riprese il suo lavoro, facendo gare ciclistiche e partecipando a momenti di svago con gli amici.

Nella sua parrocchia si occupò degli aspiranti di Azione Cattolica e dell’educazione dei ragazzi.

All’età di ventisei anni entrò tra i Servi di Maria a Monte Berico come postulante. Il 3 ottobre del 1948 inizia il noviziato a Isola Vicentina, prendendo il nome religioso di Gioacchino. Desiderava essere missionario ma, colpito da meningite tubercolare, morì il 28 aprile 1949 a Isola Vicentina.

Papa Giovanni Paolo II l’8 aprile 1997 lo decretò venerabile.

Il corpo di fra Gioacchino è sepolto in una cripta del Santuario della Madonna di Monte Berico. Il paese natale ha voluto ricordarlo intitolandogli una via.

David Maria (al secolo Giuseppe) Turoldo

(Coderno, 22 novembre 1916 – Milano, 6 febbraio 1992) è stato un religioso e poeta italiano dell’Ordine dei Servi di Maria. A 13 anni fece il suo ingresso nel convento di Santa Maria al Cengio a Isola Vicentina, sede per il triveneto della Casa di Formazione dell’Ordine dei Servi, a 17 annni, come novizio, assume il nome di frate David Maria, a 22 anni pronuncia i voti. Si laurea in filosofia.

La svolta arriva con l’occupazione nazista di Milano, comincia allora la sua collaborazione con la resistenza, nel convento produce “L’Uomo”, un periodico clandestino che cerca di promuovere la lotta civile.

Il suo principio ispiratore è “essere nel sistema, senza essere del sistema”.

Mai aderì ad un partito politico, rifiutandosi anche di appoggiare la Democrazia Cristiana: “…non bisogna confondere la Chiesa con un partito, né un partito con la Chiesa”. Incontrò l’esperienza di Nomadelfia, il villaggio che aveva voluto don Zeno Saltini nell’ex campo di concentramento di Carpi, per accogliere gli orfani di guerra, ne divenne il sostenitore economico forse più importante, con il suo continuo cercare fondi.

Fu silenziosamente allontanato dall’Italia, il Santo Uffizio vedeva in questa tonaca troppa libertà, tornerà in Italia a Firenze, dopo qualche anno grazie anche a Giorgio La Pira, allora sindaco della città. Nel 1961, spedito ad Udine, lavora con Pier Paolo Pasolini alla realizzazione de “Il Vangelo secondo Matteo”, con la messa in video del film “gli Ultimi”. Realizza a Fontanella sotto il Monte, paese natale di Giovanni XXIII, la “Casa di Emmaus”, comunità aperta capace di un ecumenismo radicale. Si schiera a favore del divorzio.

Muore il 6 febbraio del 1992, ne celebra le esequie il cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, il quale dirà che “la Chiesa riconosce la profezia troppo tardi”. Un secondo rito funebre viene celebrato nella sua casa, a Fontanella di Sotto il Monte, dove è sepolto.

Uomo e storia controversa la sua, ma sempre dalla parte dei diseredati, dei deboli, a fronteggiare le ingiustizie dei forti.